Misericordia: comprendere il teatro di Emma Dante

di Gabriele Isetto


Al Teatro Goldoni di Livorno è andato in scena lo spettacolo Misericordia di Emma Dante, un atto unico definito da lei stessa una «favola contemporanea che racconta la fragilità delle donne e la loro disperata e sconfinata solitudine.».
Bisogna chiarire subito che gli spettacoli di Emma Dante sono divisivi o si ama il suo modo di fare teatro o altrimenti si rimane perplessi di fronte alle sue scelte. Non è facile approcciarsi alle sue idee ma vale la pena fare uno sforzo per cercare di comprendere non tanto il messaggio, che è chiaro, quanto il modo attraverso cui lo veicola.
Lo spettacolo vuole essere un canto alle donne e all’amore sconfinato che hanno e che danno; maternità, violenza sulle donne, malattia dell’anima, queste le tematiche principali che la regista vuole “sbattere in faccia” allo spettatore. La durezza della realtà che purtroppo oggi spesso può diventare normalità.


Apparentemente semplice la trama che narra la vicenda delle tre prostitute Anna, Nuzza e Bettina e della loro routine quotidiana. Indaffarate a fare la maglia di giorno mentre la sera adescano i loro clienti. Con loro vive Arturo, un ragazzo problematico, rimasto orfano e che le tre donne accudiscono come un figlio dimostrando tutta la solidarietà che si viene a creare nonostante i conflitti tra loro. Arturo, figlio della violenza subita da una loro amica, forse proprio a causa di questa violenza non si esprime con le parole, ma attraverso gesti convulsi  a sottolineare la sua iperattività. Scopo delle tre donne è riuscire a dare una vita migliore al ragazzo rendendolo uomo e lui le ringrazierà esprimendo la sua unica parola: mamma, cioè colei che è capace di infinito amore. Tutto questo vortice di emozioni è reso egregiamente dai bravi interpreti: Italia Carroccio, Manuela Lo Sicco, Leonarda Saffi e Simone Zambelli.
Altro aspetto interessante è quello del linguaggio infatti viene usato il siciliano stretto ed anche il grammelot, cioè suoni senza senso ma che comunque esprimono un concetto, mezzo di comunicazione inventato da Dario Fo. 


Trattandosi di un tugurio, emblema anch’esso delle difficoltà economiche in cui versano le protagoniste, la scenografia è volutamente scarna, più che essenziale, solo quattro sedie e pochissimi oggetti perché il focus dello spettatore non deve mai distogliersi dalla storia. 
Tutto deve basarsi sulla corporeità degli attori che riescono a mettere in luce il verso significato della storia: la pietà umana.

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