di Gabriele Isetto
Sabato 24 luglio a
Torre del Lago nell’ambito del 67° Festival Puccini andrà in scena la Turandot con la regia di Daniele Abbado
e per l’occasione lo scenografo e lighting
designer Angelo Linzalata mi ha concesso un’intervista. Le scenografie sono
state realizzate nei laboratori della Cittadella del Carnevale di Viareggio.
Com’è
nata la sua passione per la scenografia e quali sono stati i suoi inizi?
L’ispirazione
per la creazione di una scenografia dal mio punto di vista nasce semplicemente
attraverso lo studio in profondità di quello che è un riferimento importante,
cioè il testo. Per il teatro musicale guardo alla partitura e non al libretto
dove viene indicato il tessuto storico e la descrizione dell’ambiente e dello
spazio. Inizialmente a me interessa capire le ragioni per cui l’autore ha
scritto in quel momento quella partitura musicale, il contesto storico, quel
testo, il messaggio che voleva trasmettere e dopo si può costruire uno spazio
che deve evocare tutto quello che l’autore ha inteso, altrimenti è solo una
semplice rappresentazione dello spazio. A me la rappresentazione dello spazio
di gusto, fine a se stessa, non interessa.
Generalmente da dove
trae ispirazione per creare le sue scenografie?
La
passione per la scenografia nasce dalla passione che ho avuto, e ho, nei
confronti dell’arte contemporanea. Studiando, durante gli anni dell’accademia
gli artisti e le forme d’arte dagli anni Settanta in poi e la loro evoluzione,
mi resi conto che una componente fondamentale è lo spazio, la
tridimensionalità, il rapporto tra luce e volume, basti pensare a Lucio Fontana
che è stato un grandissimo artista italiano magari noto solo per i tagli ma gli
ambienti spaziali di Fontana sono un esempio di scenografia molto profonda per
come la intendo io. Ho studiato a Milano, quindi la mia formazione è stata
condizionata dagli ultimi spettacoli di Giorgio Strehler, dalla visione di Madama Butterfly di Robert Wilson al
Teatro La Fenice di Venezia e da tutti gli stimoli nati dalla mia
frequentazione, prima come semplice spettatore al Teatro alla Scala e poi come
stagista per due anni, nutrendomi di quello che succedeva sul palcoscenico
della Scala.
Questa Turandot avrà un taglio più
contemporaneo? E se si, il fatto di ambientarla in un’epoca diversa piuttosto che nel mondo “fiabesco” in cui
Puccini l’ha ideata è stato per lei uno stimolo creativo?
Turandot è
un’opera del Novecento, Puccini la compone intorno agli anni Venti poi muore e
l’opera resterà incompiuta, verrà completata da Alfano che è il finale più noto
ed eseguito da allora ad oggi mi verrebbe da dire. Nel 2001 c’è una nuova
composizione di Luciano Berio, che è un compositore contemporaneo
importantissimo e non a caso decide di completare l’opera del Maestro, molto
probabilmente perché trova all’interno della musica di Puccini stesso questi
echi del Novecento. Quindi non credo che il taglio contemporaneo che può essere
dato oggi sia una forzatura rispetto alla Pechino e al tempo delle fiabe,
perché una fiaba innanzitutto dobbiamo dire che è un genere aperto, tramandato,
che ha all’interno una serie di contenuti universali. Bisogna svincolare la fiaba
dalla semplice interpretazione che si vuole dare alla dimensione dell’infante e
del fanciullo, infatti la fiaba ha qualcosa di storico e di tramandato nella
cultura orale del passato. Infatti in Turandot
il popolo è testimone di questa assurda storia su questa principessa
criptica e non si comprende perché lei ha questo atteggiamento e quindi il
popolo è custode di tutta la storia, la ripete e la conosce e quindi, come il
pubblico vedrà, all’interno dei miei elementi scenografici c’è tutta questa
sedimentazione, ci sono testi scritti, riscritti e cancellati che sono proprio
parole e frasi prese dalla partitura ed è quindi è una scenografia che tiene
conto di tutte queste implicazioni e rispettosa della musica e credo
dell’intenzione che Puccini diede occupandosi di questo tema e di questa
storia. Non credo che ci sia necessità di riferirsi alla fiaba e alla sua rappresentazione
estetica: è una storia atroce, inizia con diversi morti, poi muore il Principe
di Persia, poi il suicidio di Liù e non può essere oggi rappresentata come allegoria fiabesca, non ci credo e non è
credibile.
Quanto sarà importante
l’uso delle luci in questo allestimento? E come le ha concepite?
La
luce è una componente importantissima, non a caso mi occupo di scenografia e lighting design proprio perché da uno studio profondo che ho potuto
compiere, ritengo che la luce sia un corpo e un volume, riveli e costruisca lo
spazio, non lo illumina semplicemente. È una dimensione e una proprietà molto
importante per la scenografia e viaggia sullo stesso binario. Sin dall’inizio,
quando in studio comincio a schizzare o a prendere i primi appunti per un’idea
scenografica, c’è sempre l’evocazione di un elemento luminoso. Il pubblico
vedrà che all’interno della scenografia di Turandot
ci sono fonti che appartengono agli elementi scenografici, cioè sono delle
fonti più scultoree che illuminotecniche e questo perché ritengo che la luce
oggi sia un linguaggio molto evoluto proprio perché c’è stata una grandissima
rivoluzione tecnologica che però va usata a livello drammaturgico e non può
essere banalizzata a semplice mezzo per abbellire la parte scenografica, per
illuminare bene le materie e la qualità cromatica data dalla materia
scenografica stessa. Questo per me è fondamentale, già nello storyboard inserisco direttamente delle
fonti luminose. In Turandot c’e’ un
importante approccio tecnologico, vedrete che ci sono dei corpi luminosi
innovativi e questo appartiene un po’ alla ricerca che tendo a fare in questi
ultimi anni. La dimensione del lighting
designer non è più quella di anni fa, quando arrivava alla fine cioè quando
si montava la scena e la si illuminava, si risolveva o si impreziosiva quello
che lo scenografo aveva fatto. È un lavoro totalmente diverso che parte da
lontano e che viaggia sullo stesso binario della scenografia. Non riesco
mai a comprendere il limite di demarcazione tra scenografia e lighting design, questa è per me una barriera che non esiste e uso questi
due linguaggi unendoli fin dall’inizio e costruendo uno spazio tridimensionale
che ha bisogno inesorabilmente della luce.
C’è stata una scena di Turandot che ha avuto difficoltà di
realizzazione da un puto di vista scenografico?
Che
dire, tutto è difficile. Turandot ha
tre atti, l’ultimo è difficilissimo perché l’esplosione coloristica della
musica di Berio porta a delle difficoltà proprio di linguaggio anche visivo ed
evocativo e non so dire quale scena sia stata per me più complessa o difficile
da progettare e realizzare. L’altro giorno abbiamo fatto l’antepiano, stiamo continuando
a lavorare sulle luci e su delle parti scenografiche, credo sia tutto difficile
quando il lavoro si affronta in maniera scrupolosa. Quindi non so
effettivamente rispondere a questa domanda, ho ancora tanti dubbi da sciogliere
nella mia testa e credo che non ci sia una scena facile e una scena difficile,
è tutto molto complesso.
In che modo ha
collaborato con la costumista Giovanna Buzzi per creare armonia fra le vostre
idee?
La
collaborazione con il reparto costumi nasce da subito, quando insieme alla
regia si affronta lo studio dell’opera, tenendo conto di tutte le componenti
delle arti applicate. Il costume è importantissimo perché è proprio una
presenza importante specialmente quando la scena, come nel caso di questa Turandot, è simbolica e minimale e
quindi c’è stata una fervida collaborazione con la costumista e questo ha fatto
sì che il risultato finale sia amalgamato, dove tutta la parte visiva è
allineata e risponde al progetto stesso.
In questa messinscena
assisteremo al finale composto da Luciano Berio nel 2001, e non a quello
classico di Alfano, quanto la musica ha influito sulla realizzazione visiva di
questo finale?
Come
anticipato, tutto il progetto di Turandot
è stato condizionato dalla versione del finale di Berio. Non si può pensare
di avere un approccio con questo finale simile a quello che avremmo avuto con
il finale di Alfano e questo ha condizionato tantissimo tutta la progettazione.
Io e il regista siamo stati subito d’accordo di iniziare le prime giornate di
lavoro dal finale, proprio per creare anche nei cantanti e negli artisti una
consapevolezza forte, per far capire che con il finale di Berio tutta la storia
ha un significato diverso. Questo è fondamentale, non si può affrontare Turandot di Puccini con il finale di Berio
facendo i primi due atti e preoccupandosi solo alla fine di cosa voglia dire
quella musica, va pensato e studiato al contrario e questa credo sia stata la
chiave del nostro progetto: si comprende tutto il progetto, la regia e la parte
visiva, solo capendo il finale.