Intervista a Marina Bianchi


di Gabriele Isetto


 Il 22 novembre il Teatro Carlo Felice di Genova inaugurerà la nuova stagione lirica con Il Trovatore di Giuseppe Verdi. Per questa occasione Marina Bianchi, regista dello spettacolo, mi ha concesso un’intervista.


Che tipo di lavoro ha fatto per approcciarsi a quest’opera dalla trama così complicata?

Ho fatto in maniera tale da sgombrare la testa e gli occhi da ogni tipo di lavoro precedente cercando di essere libera in un approccio a questa storia così fantastica. La trama è complicata ma in realtà è complicata e affascinante allo stesso tempo come lo sono le fiction televisive che sono il nostro pane quotidiano quindi è questa storia che si rincorre: ogni scena ha almeno due personaggi e almeno uno lo ritroviamo nella scena successiva con un minimo spostamento di grado, è una storia che si avvita su se stessa e tutti i personaggi sono legati tra di loro da relazioni parentali, d’amore, d’affetto o filiali. Non c’è via d’uscita, è una storia che sembra che si rincorra su se stessa fino alla pagina finale che Verdi ha scritto come se, a quel punto, avesse deciso che la storia doveva finire ed è un finale velocissimo, in un attimo tutto si risolve con la morte di tre dei quattro protagonisti.


Che impronta ha dato all’opera?

Ho lasciato che questa storia rivivesse esattamente come è stata immaginata perché penso che la trasposizione in diversi secoli o la modernizzazione dell’opera lirica abbia un senso molto relativo, soprattutto per l’opera dell’Ottocento, mentre può avere un impatto e una ragion d’essere per il Seicento e il Settecento. Recentemente ho visto un’opera di Hendel alla Scala ambientata in tempi moderni e qualcosa poteva funzionare e anche la musica lo concede invece il melodramma ottocentesco, che è stato proprio il romanzo popolare e Verdi è stato il più grande drammaturgo dell’Ottocento, secondo me sopporta pochissimo le modernizzazioni o le trasposizioni anche perché non sono necessarie. Oltretutto Il Trovatore ha una storia non borghese, ci troviamo in un dramma dove i personaggi sono archetipi dell’amore romantico. Per quanto riguarda Manrico il grande dramma del baritono del Conte di Luna è sempre oscillante tra il dovere, la guerra, la passione amorosa che lo travolge. I due personaggi femminili sono invece agli antipodi uno dell’altro: Leonora è una donna libera e forte che sceglie di amare chi vuole e questo secondo me è molto importante lei, per ragioni sociali e di casato, dovrebbe avere come marito un uomo come il Conte di Luna invece ha intravisto questo straniero, oltretutto un gitano, e decide che è lui l’oggetto del suo desiderio quindi a questa donna così libera, all’inizio dell’opera, metto in mano un libro perché secondo me solo donne di cultura e che potevano leggere, scrivere, imparare la musica, la letteratura, la filosofia, queste donne che spesso non appartenevano alla famiglia, ma a quei tempi erano monache, ho voluto comunque immaginarla così: una testa libera; L’altra donna, Azucena personaggio amatissimo da Verdi, credo infatti che fosse quello a cui teneva di più, è questo femminile dirompente, in parte una strega, una maga e a quel tempo non dimentichiamo che le streghe venivano bruciate. Lei ha la capacità di curare con le erbe e poi ha un rapporto con il fantastico e il magico, ha visioni continue e poi l’altro tema importane di Azucena, è questa maternità diffusa, lei ha allevato Manrico come se fosse suo figlio come in effetti succedeva fino a pochi anni fa, in cui si allevavano figli delle sorelle o della cugina. Il tema della maternità pervade tutta l’opera, tant’è che Manrico è in mezzo a questo problema e oscilla tra l’amata e la madre.


Ha lasciato liberi scenografa e costumista o ha dato loro delle direttive?

Il progetto di scenografia esisteva già e, quando il direttore artistico Giuseppe Acquaviva me lo ha proposto, mi è piaciuto moltissimo. Scene e costumi ovviamente respirano all’unisono, sono stati realizzati da due artisti kazaki che lavorano assieme.  Per quanto riguarda la scenografia, si tratta di un girevole che immagina un fantastico castello con torrette, grate, proprio tutto con le macchine medievali quell’immaginario da Trono di spade, per rifarci sempre alle fiction, che gira su se stesso e ha centinaia di possibilità perché, a seconda del grado in cui tu fermi ad osservare il girevole, appaiono degli scorci diversi e quindi ho raccontato questa storia utilizzando questo mondo che gira su se stesso e in cui appaiono anfratti o spazi improvvisamente aperti. La scena degli zingari è tutta aperta come l’accampamento che però immediatamente diventa un castello con un ponte levatoio che scende e bandiere che sventolano. E’ una scena che mi ha dato tante possibilità di raccontare questa storia. Non mi ha mai legato a problemi di cambi di scena, che è uno dei problemi di Trovatore in cui si cambia di scena velocemente e quindi tu devi avere questa possibilità, qui data appunto dal girevole ed è fantastico.


Purtroppo sappiamo che i teatri oggi hanno budget limitati. Quant’è difficile per un regista rientrare in questi parametri?

È vero che ormai i budget sono limitati, ma quello che è peggio della mancanza di denaro è la mancanza di tempo. Il teatro ha bisogno di prove perché è un’arte artigianale e si fonda sugli attori, sui cantanti, sul coro, sui danzatori quindi ha bisogno di trovare, attraverso ore di prova, quell’equilibrio che permette alla storia di essere fruita dallo spettatore e oltretutto a me piace lavorare con i cantanti e il coro quindi, a seconda del cast, tu vedi spettacoli leggermente diversi. Il contenitore è lo stesso, ma è improponibile per me immaginare lo spettacolo come qualcosa di fisso, astratto, un’idea ossessiva alla quale il cantante, il coro o il danzatore debba aderire. La mia felicità di lavorare in teatro è quella di lavorare con interpreti diversi, quindi la scommessa è quella di tirare fuori dall’artista qualcosa che raggiunga e incontri il pensiero che io avevo del personaggio, lasciandolo comunque libero di trovare una sua dimensione.

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